..due
cose per cominciare.. due aspetti strettamente legati uno all’altro, due
scoperte se vogliamo dire così, anche se si tratta di scoperte banali…
la prima è che le valanghe fanno paura, ma dire paura non chiarisce appieno quel senso di terrore, di sentirsi innegabilmente nel posto sbagliato e nel momento peggiore, quella furia che ti prende dentro e che fa scattare i nervi, aguzzare i sensi, che rende istintivi, come gli animali. E di qui la seconda cosa, come se fosse una conseguenza scontata, anche se così non è per nulla: sono contento di essere vivo, nonostante tutto. È molto più difficile spiegare questo secondo punto anche se sembra l’aspetto più evidente della vita umana, quella di voler mantenere se stessa. E invece così non è, non è mai semplice spiegare perché una persona non voglia morire, non lo è perché bisognerebbe prendere i giorni vissuti, uno per uno, e metterli su un piatto della bilancia e sull’altro metterci tutte le speranze (se ci sono) racchiuse nel mistero dei giorni che ancora dovranno venire. Come fai a pesare una speranza? Come fai a dire che qualcosa che non eistste sarà migliore di qualcosa che è esistito, che conosci bene e che non ti piace per nulla? Non credo si possa, davvero, ma credo di aver capito oggi che voglio provare a vedere come va a finire. E l’ho capito grazie alla Montagna e a causa del boato che segue il distacco di tonnellate di neve da una parte rocciosa e a causa di quell’attesa snervante che separa il sogno di un domani migliore da una fine senza possibilità di replica.
la prima è che le valanghe fanno paura, ma dire paura non chiarisce appieno quel senso di terrore, di sentirsi innegabilmente nel posto sbagliato e nel momento peggiore, quella furia che ti prende dentro e che fa scattare i nervi, aguzzare i sensi, che rende istintivi, come gli animali. E di qui la seconda cosa, come se fosse una conseguenza scontata, anche se così non è per nulla: sono contento di essere vivo, nonostante tutto. È molto più difficile spiegare questo secondo punto anche se sembra l’aspetto più evidente della vita umana, quella di voler mantenere se stessa. E invece così non è, non è mai semplice spiegare perché una persona non voglia morire, non lo è perché bisognerebbe prendere i giorni vissuti, uno per uno, e metterli su un piatto della bilancia e sull’altro metterci tutte le speranze (se ci sono) racchiuse nel mistero dei giorni che ancora dovranno venire. Come fai a pesare una speranza? Come fai a dire che qualcosa che non eistste sarà migliore di qualcosa che è esistito, che conosci bene e che non ti piace per nulla? Non credo si possa, davvero, ma credo di aver capito oggi che voglio provare a vedere come va a finire. E l’ho capito grazie alla Montagna e a causa del boato che segue il distacco di tonnellate di neve da una parte rocciosa e a causa di quell’attesa snervante che separa il sogno di un domani migliore da una fine senza possibilità di replica.
Tutto
questo è accaduto al Piz Duan, montagna che dimostra una certa maestosità
pur essendo lontana dai grandi palcoscenici delle Alpi e che si presta a farsi
conoscere solo da coloro che sono davvero pronti a farlo. Nella migliore delle
ipotesi, raggiungerlo significa infatti essere disposti ad affrontare 17,5km di
camminata per 1730m di dislivello in sola salita. Non è esattamente uno scherzo
e a maggior ragione non lo è in inverno, quando la neve modifica i paesaggi e
rende instabili e difficili alcuni passi. E certamente non lo era oggi, uno
scherzo intendo, viste le alte temperature che certamente promettevano (e noi
lo sapevamo) un rientro difficoltoso su neve smollata, sotto l’occhio malvagio
di pareti a picco e ripidi pendii carichi di neve e soleggiati dal primo
mattino e per tutto il pomeriggio. Ma andare in montagna significa soprattutto
assumersi dei rischi e noi, Luca ed io, abbiamo deciso oggi di farlo.
Con il Piz Duan io avevo un conto aperto. L’avevo corteggiato ad inizio Novembre, in solitaria, quando l’inverno non era ancora arrivato, ma il freddo e la neve sì. Avevo deciso di tentarne l’avvicinamento, anche se tutti voi sapete che per me non eiste il tentativo fine a se stesso. Per me, già allora, esisteva solo la vetta. Ero lì per mettercela tutta. Ovviamente però non potevo riuscirci: la neve fresca, il vento forte, le giornate corte, il grande dislivello… non sono cose che si possono improvvisare, le salite in queste condizioni. Avevo comunque fatto la mia parte egregiamente arrivando a quota 2700m… considerate che si parte dai 1450m del paesino di Casaccia, in Val Bregaglia. M’ero fermato poco prima di salire verso il ghiacciaio che mi avrebbe consegnato alla parte alta dell’itinerario e a quella vetta che inesorabilmente era rimasta invece 430m troppo in alto, invisibile.
Era
quindi ovvio che ci avrei riprovato. Sapevo di dover aspettare neve migliore.
Nel frattempo ho conosciuto Luca con cui ho condiviso un paio di uscite e con
lui ci siamo accordati: lo proviamo verso Marzo! Così, quando una decina di
giorni fa sui siti specializzati hanno iniziato a vedersi i primi report che
raccontavano la salita a quella cima, l’organizzazione è scattata al volo: si
va in infrasettimanale, ci prendiamo un giorno di ferie.
Quello
che allora non ptevamo sapere, era che questo finale d’inverno sarebbe svanito
tra le braccia della primavera. Ma la decisione era presa, non si poteva
rimandare a tempi migliori ;-)
E
così ci ritroviamo ai blocchi di partenza alle 6:45. La giornata
promette molto sole, pure troppo, eppure appena scendiamo dalla macchina siamo
sorpresi dal maledettissimo vento. Ok, ci si prepara in tutta fretta dentro
l’auto J Per fortuna il vento cessa
appena ci inoltriamo nel bosco che contraddistingue la parte bassa
dell’itinerario. Arrivando dalla strada avevamo visto il fianco della montagna
solcato da diverse slavine: “Ma noi dobbiamo passare proprio là sotto?”, mi
aveva chiesto Luca. Eh già, proprio là sotto… per fortuna quando si vede un
pendio solcato dalle slavine, vuol dire normalmente che quello stesso pendio ha
già scaricato ciò che aveva in eccesso. Di solito significa che non ci saranno
sorprese. La sorpresa è stata invece quella di vedere l’enormità di quelle
slavine, davvero impressionanti in alcuni casi, tanto da rendere difficoltoso
anche il semplice attraversamento. Ulteriore sorpresa, negativa questa volta, è
stato invece il vedere che un paio di pendii molto ripidi che noi dovevamo
attraversare, non avevano scaricato nulla e a picco sulle nostre teste si
potevano vedere chiaramente le crepe spaventose nel manto nevoso. “Questi
pendii produrranno qualcosa di brutto”, ci siamo detti, “Oggi pomeriggio al
ritorno, dobbiamo attraversare di corsa”.
Il posto sbagliato e il momento
sbagliato non avrebbero dovuto incontrarsi, non oggi almeno, e non lì.
Nel
frattempo proseguiamo abbastanza veloci… siamo sulla piana della lunghissima
Val Maroz. Un posto favoloso, oso solo immaginare quanto diventi bello in
estate! Oggi però più che bello era spaventoso: tutto il lato destro (in
salita) della valle non era più bianco, era una successione di slavine, alcune
piccole, alcune mostruose… alcune, le peggiori in assoluto, pronte a staccarsi
all’arrivo del caldo pomeridiano.
Attraversiamo
quindi alcune valanghe con un po’ di fatica, una in particolare mi lascia
dentro una strana inquietudine: era la più grande che avessi mai visto, è
venuto giù un intero pendio per più di cento metri, con un fronte di una decina
di metri, arrivando a tuffarsi nel torrente che scorre nel mezzo della valle.
Ma la cosa impressionante era l’odore di terra. Terra fresca. Come se tutto
fosse crollato al massimo 24 ore prima. E poi la sua conformazione… la slavina
ha scavato come una strada a due corsie, davvero… lo vedrete nelle foto. E l’ha
circondata di muri alti tre metri, come a voler proteggere e ingigantire il suo
cuore spaventoso. Rimaniamo entrambi impressionati e non credo saremo mai
capaci di spiegare cosa ci frulla dentro mentre proseguiamo, finalmente in
vista dei primi ripidi pendii di salita.
Quando
si inizia a fare sul serio, la fatica cancella tutti i cattivi pensieri. Si
pensa solo a salire e si cerca di farlo il più velocemente possibile, nel limite
delle proprie forze, considerando che il bello sta iniziando solo ora.
Incontriamo altre tre persone, tutte dirette al Duan… Tre scialpinisti
italiani. Incredibilmente arriveremo in vetta con solo uno di loro, distaccando
gli altri due. Non l’avrei creduto possible!
La
salita risulta faticosa ma molto bella. Dopo il primo canalone, la Val Maroz si
getta nella Val da la Duana ed è uno spettacolo per gli occhi. Ma il bello
viene dopo, quando si arriva nei pressi del piccolo ghiacciaio del Piz Duan. È
un ambiente grandioso, davvero, sono felice di esserci dentro e di sentirmi
bene, in forze. La fatica di sabato sembra già riassorbita. E così dopo circa
5h30m siamo in cima. L’obiettivo è raggiunto, il conto è chiuso! Ora ci si può
godere il panorama che lascia senza parole, supera in bellezza quello ammirato
sabato dal vicino Gletscherhorn.
In
vetta ci tratteniamo circa mezzora, quindi riscendiamo sul ghiacciaio per
mangiare. Lì il caldo è tanto, la neve riflette il sole e ci si sente bruciare.
Sappiamo di non dover perdere troppo tempo, la discesa è lunga e sarà
probabilmente rallentata dalla qualità della neve. Non vogliamo arrivare troppo
tardi all’appuntamento con la minacciosa parete della Val Maroz.
Spiegare
adesso cos’abbia significato sentirsi addosso il peso psicologico di quella
serie infinita di scariche nevose è impossibile. Ne ho contate 6 o 7 credo,
alcune piccole, quasi tutte a dire il vero, e piuttosto lontane, anche se pure
di queste il suono prodotto lo ricorderò per molto tempo.
Ma
ce n’è stata una… una più grossa… è stata preceduta da un gran frastuono, si è
subito capito che sarebbe stata diversa dalle altre, più grande, sicuramente
letale se ci avesse preso. Ci siamo pietrificati, guardati attorno come animali
che sentono il pericolo e l’abbiamo vista: proprio di fronte a noi, forse
lontana una decina di metri, non di più. Non posso non pensare che se ci
fossimo trattenuti in vetta 10 minuti di meno o se avessimo mangiato più in
fretta o se la neve fosse stata migliore e la discesa più veloce, le saremmo
stati proprio sotto. E difficilmente ce la saremmo cavata a quel punto.
Dopo
quella slavina, il clima è cambiato. Abbiamo cercato di fare in fretta, ci
siamo spostati dall’altra parte del torrente dove non c’erano tracce, ma poco
importa, volevamo stare il più lontano possibile da quel tremendo versante. Non
abbiamo potuto tirare il fiato nemmeno quando siamo rientrati nella parte
boschiva. Lì ci aspettava il pendio da attraversare, quello notato la mattina
in salita. Praticamente l’abbiamo affrontato di corsa, coi piedi doloranti
dentro le ciaspole, ma non importa. E nonostante tutto, la valle ha voluto
regalarmi un’ultima paura: proprio mentre stavo per iniziare l’attraversamento
pericoloso, si è sentito un altro frastuono orribile, un’altra grande valanga.
Ma in montagna, si sa, i suoni rimbalzano. E nella mia mente, quel rumore
orrendo che proveniva dalle mie spalle, stava invece arrivando proprio da sopra
la mia testa. Per un attimo ne sono stato certo.
Sono
scattato all’indietro. O per meglio dire, i muscoli sono scattati in autonomia,
per puro istinto di sopravvivenza. Come un animale volevo restare vivo, ma se
veramente il rumore fosse arrivato da sopra la mia testa, come pensavo, ora non
lo sarei più.
È
stata certamente la migliore occasione in cui io abbia sbagliato valutazione…
by RobilPinza
by RobilPinza
1 commento:
figo!
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